L’indebolimento del potere centrale nella Bassa Epoca, al quale si contrappose apertamente quello dei sacerdoti, consentì alle singole province di rendersi autonome e costrinse l’Egitto a subire il dominio straniero: prima quello degli assiri, poi, dopo un periodo di rinnovato splendore sotto i faraoni Amasi e Psammetico III (XXVI dinastia), quello dei persiani. L’invasione persiana fu condotta dal re Cambise nel 525 a.C. e i persiani tennero il paese fino al 332 a.C., quando sull’Oriente salì la stella di Alessandro Magno. Ci fu solo un breve intervallo di quasi cinquant’anni (380-345 a.C.), in cui sovrani di stirpe egizia tornarono a governare da Sais, sul Delta. Nella sua nuova dimensione l'Egitto non rappresentava altro che una provincia del vasto impero persiano e, per questo, non è storicamente errato individuare proprio nell'invasione persiana l'evento che mise definitivamente fine alla splendida civiltà egizia. Infatti, anche se all'inizio i nuovi regnanti si dimostrarono rispettosi degli usi, delle tradizioni e dei culti locali, al solo scopo di assicurarsi l'appoggio popolare, col passare del tempo essi finirono inevitabilmente per manifestare intenzioni più consone a una potenza coloniale. Così, benché sul trono si succedessero sovrani di grande prestigio e di indubbie capacità (Dario I, Serse, Artaserse I, Dario II, Artaserse II fino a Dario III), non appena la potenza persiana si dimostrava in difficoltà, l'Egitto sistematicamente insorgeva contro gli invasori. Fu dunque con fiducia e entusiasmo che, non appena cominciò a delinearsi all'orizzonte il possibile arrivo degli eserciti di Alessandro Magno, gli egiziani guardarono al nuovo venuto come ad un autentico liberatore. Non furono delusi. Nel breve periodo della dominazione macedone (332-304 a.C.), infatti, i nuovi sovrani dettero prova di grande moderazione, rispettando usi e tradizioni locali, cercando di favorire lo sviluppo economico e culturale dell'Egitto e promuovendo una radicale ristrutturazione politica del regno.